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Romolo Dorinzi è al centro della fotografia tra la madre e il fratello.
Una volta la notizia dell’armistizio venne diffusa dalla radio italiana e americano, i tedeschi misero in azione il piano per aggredire e disarmare l’esercito italiano. A Roma, i primi contatti tra la Wehrmacht e il Regio esercito avvennero al ponte della Magliana. Il combattimento si accese lungo via Ostiense e via Imperiale, oggi Cristoforo Colombo.
Queste sono le parole di Romolo Dorinzi:
Avevo quindici anni e abitavo in via delle Statue 10. In casa eravamo rimasti io, mia madre, Assunta Ranucci, e mia sorella Luciana, di sedici anni. Mio padre era morto. Orlando, Marco e Orazio, i miei tre fratelli, erano in guerra. Orazio anzi fu ferito a una spalla.
Era la mattina del nove settembre, credo mezzogiorno. Luciana era uscita. C’era il bombardamento. Temevo che tutto ci cadesse addosso da un momento all’altro. Mia madre disse: “Andiamo in chiesa, il Signore ci deve aiutare.” La chiesa era quella di Gesù Buon Pastore. Io l’accompagnai. Poi sarei tornato ad aspettare mia sorella.
Per la strada c’erano feriti. Carri rovesciati, soldati tedeschi che correvano. Ce n’era un gruppo che stava piazzando un obice. Sapevo che sull’altro lato della Cristoforo Colombo [precedentemente, via Imperiale] c’erano i nostri soldati. I granatieri, mi pare. I tedeschi stavano puntando l’obice in quella direzione, verso il forte. Era il forte Gaetano Giardina [Ostiense, uno dei capisaldi del piano di difesa]. Ne conoscevo molti di quei granatieri. L’obice doveva molto pesante e i soldati faticavano a sistemarlo. Allora pensai di fare qualcosa.
Lasciai mia madre e corsi verso il fortino. Mia madre gridò qualcosa. Adesso non riesco a ricordare. Io urlai: “Li vogliono ammazzare.” Mi sparavano addosso, o forse non sparavano a me. La mitraglia c’era, comunque, la sentivo sulle orecchie, anche se ogni tanto mi buttavo a terra per tirare il fiato. C’erano settecento metri di strada fino al forte ma mi pareva lontanissimo. Pensai: Mio Dio, adesso mi ammazzano, e allora sentii un bruciore al braccio, a sinistra. La camicia si era strappata e c’era il sangue. Ormai, mi avevano ferito ma il forte era vicino. L’obice non sparava ancora.
Raggiunsi il forte. I soldati non se lo aspettavano proprio il bombardamento. Urlavo “i tedeschi stanno qui dietro! Vi prendono alle spalle!” Mi portarono da un ufficiale e ripetei tutto. Mi credettero, grazie a Dio. L’ufficiale dette ordine di lasciare il forte. Un soldato allora vide il braccio ferito e mi disse: “Ma che fai, lo vuoi perdere quel braccio?” Io mi legai stretto con un fazzoletto. Mentre gli altri lasciavano il forte cominciai a gironzolare nel cortile. Non me la sentivo di tornare subito indietro, sotto la mitraglia. Mi avvicinai al fornaio. Lo conoscevo bene. Si chiamava Guarino Roscioni e distribuiva il pane ai soldati. I soldati avevano interrotto la fila per mettersi in salvo, davanti a lui era rimasti un tenente. Roscioni gli dette due “sfilatini” poi me salutò. In quel momento arrivò una granata: colpi in pieno il tenente. Me lo ricordo ancora, a terra, con gli sfilatini in mano.
Dopo successe il finimondo. Roscioni mi disse:” Vattene, vattene”. Poi si mise a piangere. Dopo ho saputo che Roscioni è morto.
Mi ne andai, facendo un giro largo. Andai all’ambulatorio del dottor Ciccolini. Il dottore non c’era. Alla Montagnola incontrai una donna, un’infermiera mi pare. Mi levò il fazzoletto sporco di sangue e mi fasciò con una benda nuova. “Qui dentro ci deve essere una scheggia – disse – devi trovare un medico, altrimenti perdi il braccio.” Mi ricordai di quello che aveva detto il soldato. L’unico posto dove potevo trovare un medico era alla Croce Rossa ma lì c’erano i tedeschi. Ci andai lo stesso: un braccio è sempre un braccio. I tedeschi avevano sistemato un’infermeria in una scuola vicino alla Cristoforo Colombo. Mostrai il braccio ferito e mi fecero entrare in una saletta dove c’erano altri feriti. C’erano molti soldati che mi guardavano fisso fisso. Il dottore mi prese il braccio e lo guardo attentamente. Un soldato gli si avvicinò e gli disse qualcosa. Il dottore allora tenendomi il braccio disse: “Peccato italiano voi.” Poi mi spinse fino al tettino bianco. Mi medicarono, mi fecero l’antitetanica, mi dissero di andare in ospedale, poi mi lasciarono andare.
Non me parve vero. Uscii e andai in chiesa, al Buon Pastore. Speravo di incontrare mia madre. Non c’era. Era tornata a casa. Me lo disse Don Pietro, il parroco che l’aveva vista pregare. Tornai a casa. C’erano mia madre e Luciana. Dopo qualche ora, andai al San Camillo con mia madre. Mi dettero un lettino in un angolo e ci rimasi quindici giorni.”
Venti anni dopo ci fu una cerimonia alla Montagnola, in ricordo della battaglia per Roma. Vennero anche molti granatieri, e diversi mi riconobbero, mi abbracciarono “questo è il ragazzini che chi ha salvato la vita” dicevano.
Romolo Dorinzi 22.11.28 – 18.5.19.
Ha vissuto tutta la sua vita a Roma. Nella fotografia è con Fabio, suo figlio minore, sulla spiaggia di Ostia.
L’episodio di Romolo Dorinzi è riportato nel Giornale d’Italia del 10.9.63 e nel Roma Città Prigioniera di Cesare De Simone.
Ringrazio Fabio Dorinzi per la storia di suo padre e per le fotografie.